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n. 7381   lettori al   19.04.24
Dreyfuss, Zola ..... e il 2020
05-01-2020
“L’Ufficiale e la spia”, di Roman Polanski (2019). Film depressivo. Film adrenalinico.

Si dirà: due definizioni opposte, inconciliabili. Un ossimoro. Vero. Ma non è forse duale la figura del protagonista, il colonnello Picquart, con il suo meraviglioso non negoziabile senso della giustizia e il suo dichiarato fastidio per gli ebrei? E non è forse contraddittorio il profilo della democrazia, con il suo ruolo impareggiabile e insostituibile, ed il suo diavolo in corpo?

La Francia esce dal Secondo Impero; e dopo la devastante sconfitta di Sedan si apre alla cosiddetta Terza Repubblica. Guarda al futuro e si protende verso il Novecento. Vive la dialettica democratica fra soggetti politico/culturali diversi: cattolici, liberali, repubblicani, socialisti. Vede il profilo moderno e alto della libertà di stampa. Eppure cova nel suo seno - da cui esplodono - intolleranza, manipolazione, fanatismo, antisemitismo, corruzione di potere e cedimento della folla ai propri demoni collettivi. Eh sì, la visione del film, peraltro (volutamente) claustrofobico e asfissiante nella sua fotografia, ti deprime, perché ti dà per due ore il segno plastico della forza inarrestabile delle trame inique, della congiura, del profilo sofocleo di un potere che perde di vista tutto ciò per cui dice, retoricamente ed ampollosamente, di battersi: interesse del popolo, dello Stato, della nazione, difesa valoriale della vita collettiva, senso di appartenenza e senso del dovere.

Ma via via che immagini e vicenda scorrono, il film ti dà anche l’irrequietezza da cui si sprigiona voglia di reagire, di ribellarsi, di organizzarsi per rovesciare il tavolo, di cercare e credere in un catartico “arrivano i nostri”. Il che peraltro nel film, e nella storia vera dell’affaire Dreyfuss, effettivamente si determina. Ma a quale prezzo? Con un Dreyfuss assolto e reintegrato dopo anni e anni di isolamento, di umiliazione, di condanna umana prima ancor che giuridica. Di demonizzazione sbattuta in braccio ad una folla fuori controllo. Un risarcimento che vale certamente per la storia e per le generazioni successive. Ma che per l’interessato ha un po’ il sapore delle moderne assoluzioni di imputati, sbattuti in prima pagina, e dopo anni relegati con la loro assoluzione in un trafiletto quasi illeggibile in una pagina interna. Assolti per non aver commesso il fatto. E quasi nessuno se ne accorge. E forse neppure l’accusato stesso, perché comunque frustrato irrimediabilmente nella sua personalità. E neanche a dire che la storia sia magistra vitae. Perché appena capita un nuovo affaire, si va punto e da capo. Mostro in prima pagina; assoluzione tardiva in un trafiletto invisibile.

E anche per l’affaire Dreyfuss purtroppo possiamo dire sia stato così. La storia non ha insegnato e i demoni ricompaiono, pure nella fantascientifica società degli anni Duemila.

Antisemitismo nella Francia di fine Ottocento. Che non sente ragioni. Il colpevole non può che essere lui: deve essere lui: l’ebreo. Il diverso. Perché questo rassicura che il male ha radici etniche, e noi ne siamo esenti. O quasi. E un nemico, e tanto più un traditore, non può che provenire dall’esterno del nostro gruppo, del nostro collettivo. E’ importante per compattarsi, per rassicurarsi circa la provenienza altra del male, costruire il nemico, meglio se mostro, e darsi come obiettivo escatologico la sua sconfitta, se possibile la sua distruzione.
Dinamiche tutte proprie dell’affaire Dreyfuss? Magari. Dinamiche di sempre, che troviamo nella mitologia greca antica come nella storia medievale, moderna o contemporanea. L’affaire Dreyfuss le ha drammaticamente riproposte allo scadere dell’Ottocento, proprio quando si poteva sperare che in un grande paese come la Francia potessero meglio essere combattute. Per la cultura, l’arte e il pensiero che stava producendo, Emile Zola in testa.

Ecco, appunto: l’adrenalina. Proprio dalla figura di Zola, pur poco presente nel film e non evidenziata in quello che ha rappresentato. E non solo per la Francia. La nascita dell’intellettuale moderno, cioè dell’uomo di pensiero e di impegno. Calato nel reale, coscienza critica, e fiero oppositore, del potere (di qualunque potere), quando questo deraglia dai valori della democrazia, della giustizia, della rappresentanza.
Soprattutto quando perde di vista l’uomo, e la sua dignità, e i suoi diritti.
L’intellettuale allora è lì, in campo, con le sue elaborazioni, con la sua cultura, con il suo coraggio, con il suo impegno. Questo il profilo dell’intellettuale moderno che l’affaire Dreyfuss ci consegna. Differente da altri profili di intellettuali, portatori certo di funzioni pur importanti nelle dinamiche della vita collettiva, ma appunto.. altri. Come l’intellettuale gramsciano organico a un soggetto politico cui fornire cassette di attrezzi per la lettura del reale; o l’intellettuale platonico o fichtiano, grande saggio che traccia per il potere gli obiettivi da perseguire. E certo radicalmente differente dall’intellettuale chierico chiuso nella torre d’avorio. Intellettuale coscienza critica e razionale di una società, potere compreso, che nelle sue dinamiche può sempre perdere le coordinate. Zola appunto, con il suo ”j’accuse”, ed il suo coraggio che sfida anche la condanna certa per diffamazione cui va incontro.

Tutto questo il film di Polanski ce lo rende con filologica precisione, di scene, di trama, di costumi, di dialoghi. Forse fin troppo filologica, il che determina forse la mancanza di qualche slancio espressivo più forte, di qualche sottolineatura drammatica che catturi lo spettatore con la forza emozionale dell’arte. In fondo Polanski si affida alla forza dei fatti, un po’ alla Zola, se mi si passa il paragone, ma appunto con la asetticità del pamphlet che non cerca e non trova la carica simbolica della espressione artistica. Il film ha l’asciuttezza, ma anche i limiti espressivi di una letteratura naturalista che proprio in quella Francia trova la propria stagione. Certo quella vicenda, quei fatti parlano da soli. Ma qui e là Polanski mi sembra come frenato dalla volontà di essere chirurgico e scientifico nell’approccio alla vicenda, ed un pochino manchi della visionarietà dell’arte, in grado di esaltare fatti, vicende, personaggi, e di farteli arrivare e penetrare nel profondo. Come nel caso della figura di Pauline Monnier cui Emmanuelle Seigner dà un volto dolente, affascinante, innamorato, ma forse non efficacemente combattivo nel sostenere la lotta dell’amante Picquart, come pure realmente accaduto.

Insomma contestualizzare, datare la vicenda - come è corretto fare – non esclude necessariamente il coglierne anche la valenza universale: storicamente riproducibile (purtroppo, in tal caso).
E così accade che una scena come quella conclusiva, potenzialmente densa di significati, perda un po’ di efficacia, quasi si annacqui, e rischi di arrivare poco allo spettatore. Il Dreyfuss assolto, reintegrato, e tremante per una precoce vecchiaia raggiunta a suon di sofferenze e umiliazioni, va a trovare in ufficio il neo ministro della Guerra, proprio quel Picquart – ora generale – che pur ha combattuto, sofferto e pagato prezzi; ma che alla fine trova la propria resurrezione umana e professionale nell’assumere un ruolo in quel potere politico, e militare, che lo ha combattuto duramente, ma evidentemente non sfiancato. E Dreyfuss chiede un ulteriore atto di equità; una promozione di grado che avrebbe maturato per anzianità di carriera (come accaduto del resto proprio a Picquart). E il neo ministro gli risponde: no. La legge non lo consente; una legge che in qualche modo il ministro avrebbe potuto almeno cercar di rinnovare. Ma non lo consente soprattutto il clima sociale che, dice Picquart, è nuovamente fibrillante in tema di diritti e di antisemitismo. E qui la battuta – che pure contiene il sugo di tutta la storia, avrebbe detto Manzoni - quasi non si percepisce, diluita in un dialogo divenuto improvvisamente un po’ melodrammatico. Eppure la battuta è importantissima per capire quanto il potere – in senso stretto, ma anche quello della cosiddetta pubblica opinione - sia in grado di andare al di là della qualità delle persone, condizionandole e, sovente, peggiorandole.
Ma tant’è, forse Polanski non ha voluto rischiare di forzar la lettura di quella vicenda storica in chiave contemporanea. E magari in chiave personale autobiografica, cosa che pure lui stesso aveva in qualche modo sottolineato in fase di presentazione del film, in riferimento al proprio vissuto personale, che qui non mi permetto di esaminare e valutare, ma che certo ad 86 anni ancora lo segue, ed insegue.
Comunque al di là di tutte queste riflessioni, il film merita di essere visto (e merita il Premio della Giuria alla Biennale del cinema di Venezia 2019). E’ bello. Rigoroso. E coraggioso, perché palesemente intercetta temi, problemi, pulsioni, deragliamenti, battaglie che la società dell’appena nato 2020 vive ancora, sulla propria pelle; a cominciare dalla stessa Francia, che pure il film ha realizzato con proprie forze ed artisti (come l’asciutto Jean Dujardin con il suo Picquart), ma che non a caso ha reagito con grandi tensioni alla uscita del film stesso. Segno che antidreyfusardi e dreyfusardi non sono solo un reperto storico tardo ottocentesco, ma sono carne viva – oggi - delle dinamiche politiche, sociali e culturali. Anche in quel grande paese. E non c’è nemmeno uno Zola!

Che in verità, mi sembra proprio non ci sia neanche in Italia. Proprio no!!





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