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n. 7441   lettori al   26.04.24
Ogni tanto la televisione vola
12-04-2021
E' un po' che non faccio visita alla mia rubrica Coffee Page.
Il Covid limita le uscite e soprattutto le visite a mostre e musei, la partecipazione a spettacoli cinematografici, teatrali e musicali. E così le occasioni - da trasferire in rubrica - di un po' di carica adrenalinica da opere d'arte languono. E la televisione conquista spazi sempre crescenti nel nostro vissuto. Ammesso però che glieli facciamo conquistare, perché non è che la televisione brilli per palinsesti fascinosi. Accendendola troviamo di sicuro programmi dai format vari, ma monotematici: il Covid e la sua diffusione pandemica. In alternativa, talk show, questi sì identici fra loro e tendenzialmente urlati, che quando non parlano di Covid parlano del barcamenarsi surreale di classi dirigenti sempre più sbandate e di cittadini sempre più confusi.
Sì, lo so, queste battute appaiono qualunquiste, e magari poco responsabili. Ma non vogliono esserlo, e non lo sono. La pandemia ha tutta la mia impaurita attenzione; la mia responsabile attenzione. Da marzo 2020 osservo con diligenza assoluta ed impegno tutte le direttive delle autorità, le norme e le restrizioni.
Quanto alla politica è sempre stata una mia rispettosa passione fin da giovane. Ma che viva un'epoca di sbandamento virale credo lo si possa legittimamente dire. Semmai, un dubbio: ma non è che stesse sbandando già prima del Covid?
Insomma, sia come sia, la televisione non seduce più di tanto. Con l'aggravante di perseguitarci compulsivamente con scienziati, virologi, epidemiologi ormai infettati... non dal Covid... da un mediatismo acuto; e vagamente insopportabile.
Insomma dalla televisione uno spera di essere un po' risarcito per mesi e mesi senza cinema, senza teatro, senza concerti, senza mostre, senza sport se non quello asettico senza pubblico e senza umanità; e senza gite, senza viaggi, e senza passeggiate "tranquille" demascherinizzate fra le bellezze delle nostre città. A cominciare dalla mia Roma, il cui fascino resiste strenuamente... anzi no. Mi sembra un bel po' avvizzito per quello che si può vedere. Una città ripiegata malinconicamente sulla propria decadenza e sulla propria bellezza perduta. E non solo per il Covid: tutt'altro.
Ma poi, ecco che all'improvviso, la televisione vola, e nel mare di programmi pesanti, deprimenti più del Covid, ti ritrovi di fronte a quattro o cinque perle.
E l'adrenalina torna a salire.
E la cosa imprevedibile, sconvolgente ma gradita, è che ti accorgi che tutte le perle arrivano non da La7 gruberizzata e travaglizzata, non da Mediaset in grande affanno, non da Sky che perde colpi su colpi (oltre che gare di appalto per lo sport, che prima seguiva egregiamente). Arrivano dalla più imprevedibile delle emittenti. Il servizio pubblico: la RAI, che in mezzo ad una gran quantità di programmi fra i peggiori in assoluto della televisione italiana, ti piazza alcune prodezze. E pure di genere vario.
Giusto quattro mesi fa avevo dedicato un articolo di Coffee Page alla bellissima prima de La Scala di Milano: uno spettacolo originale per quanto senza pubblico.
Ma in questi giorni si è fatto di meglio. In collaborazione con il Teatro dell’Opera di Roma, la RAI, con la regia di Mario Martone e la interpretazione del soprano cubano Lisette Oropesa ci ha fatto assistere ad una rappresentazione deliziosa de La Traviata verdiana. Ma che dico "deliziosa". Un'autentica opera d'arte. Lo so, voi mi direte: e grazie, La Traviata di Verdi!
No no... mi riferisco alla specifica edizione televisiva realizzata da un trio di fuoriclasse.
Daniele Gatti alla direzione dell'Orchestra, tornato convintamente alla sua ispirata lettura dei capolavori musicali, con l'aggiunta di un abile tocco soft nella guida dei musicisti, ad impedire che nel mix televisivo la sonorità orchestrale coprisse le altre sonorità e la raffinatezza della scenografia e del montaggio.
Lisette Oropesa, che canta con la potenza sublime di una voce che non stride, ma accarezza l'udito, e lo penetra col fascino di sonorità limpide. Un soprano che coniuga dolcezza, eleganza e raffinatezza di impatto scenico e vocale con la forza prorompente della propria fisicità; indimenticabile il suo acuto in crescendo nel mentre si alza da terra, dove era totalmente distesa, e modula - come il canto di un usignolo in amore - il suo passaggio alla romanza/duetto con Alfredo "Gran Dio morir sì giovine".
E infine Mario Martone, regista straordinario ed eclettico, che da sempre coniuga la sua padronanza del contesto scenico (cinematografico, teatrale o televisivo) con la ispirazione colta dei suoi soggetti, che gli consentono di passare indifferentemente dal film sulla vita di Leopardi (Il giovane favoloso), al melodramma e alla prosa d'autore, al documentario televisivo su Caravaggio o su Hayez. Una lettura del capolavoro verdiano di un calligrafismo sensuale, tanto dionisiaco nelle scene delle feste, dei balli e dei calici innalzati in brindisi frenetici, quanto apollineo nei momenti intimisti di ripiegamento della protagonista su se stessa, donna bella, perduta e rinata. E respinta, dall'ipocrisia che la circonda.
E in mancanza dell'empatia - comunque insostituibile - con il pubblico in sala, Martone eleva il mezzo televisivo ad arte in sé, con la sua capacità di invenzione scenica e registica e la sua padronanza ispirata dello strumento del montaggio. In questo evento probabilmente il top della intera performance: il montaggio.
Una rappresentazione de La Traviata con suggestioni che solo il mezzo filmico (e più specificamente quello della videodiretta televisiva) può dare. Neppure il teatro in presenza. Martone realizza arte che non è teatro, non è cinema, non è televisione: è tutte e tre le cose insieme. Emozione assoluta. Arte che ha un futuro, anche quando avremo recuperato la nostra socialità e relazionalità. Abbiamo visto un melodramma in diretta, con le sue voci, le sue note, le sue scene, e ad un tempo la modulazione di un montaggio sofisticato, che immette in una dimensione senza tempo. Violetta è nell'Ottocento di Dumas e Verdi; Violetta è nel nostro presente; Violetta è nel futuro della universalità dell'arte.
Non prendetemi in giro, ma difficilmente dimenticherò la scena conclusiva di questa traviata martoniana. Immagine che manco Caravaggio o Tiziano; con la protagonista distesa, ormai senza vita, plasticamente a cavallo fra palco e platea. Violetta/Oropesa in scena - da sola - di fronte ad un teatro deserto, elegantissimo ma inquietante nel suo sapore di thanatos, con sedie e poltrone vuote distanziate e perdute tristemente nella sala; la buca dell'orchestra vuota; le luci che illuminano il vuoto. E lei nel bianco della veste - emblematico di una rinascita - di fronte al rosso/blu cupo e definitivo del teatro, canta le sue ultime note "Ritorno a viver", nel mentre crolla a terra, con la leggiadria di una piuma, che vola via dalla vita. Da sola. Con noi.
Per "sempre libera", come nella romanza cantata con la forza dell'eleganza in uno dei momenti dionisiaci del melodramma verdiano.

p.s. lo so, mi direte: ma non avevi parlato di quattro o cinque perle televisive? Ci hai parlato solo di una. Ora non posso dilungarmi oltre; ma ci rivedremo, ad un prossimo articolo, con le altre perle. Le fiction poliziesche e d'ambiente "Il commissario Ricciardi"; "Lolita Lobosco"; "Makari". E con la perla più imprevedibile, un programmino (il diminutivo rimanda solo alla durata breve ed agile di ogni puntata serale) di intrattenimento di rara eleganza, intelligenza e gradevolezza: Via dei matti n. 0, con Stefano Bollani e Valentina Cenni.
Venticinque minuti serali in punta di penna, come ritrovarsi insieme in una stanza; a parlare di musica (e ascoltarne momenti suggestivi) e di cultura (viva e vissuta)... o meglio. Venticinque minuti di umanità e di socialità. Arrivederci.





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