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n. 11600   lettori al   07.12.24
Artemisia “pittora in suo nome proprio”
07-02-2022
«Quando fummo alla porta della camera lui mi spinse e serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe … »
(Prima deposizione di Artemisia al processo del marzo 1612)


Artemisia Gentileschi è stata definita in molti modi - “icona del femminismo moderno”, “pittrice della guerra tra i sessi” - ma non dobbiamo dimenticare che, prima di tutto, è stata una grande artista, una tra le prime pittrici e senz’altro la più originale e prestigiosa della sua epoca, il XVII secolo. Una storia, la sua, di ingegno, di violenza, di ribellione e di riscatto.
A Roma, dove era nata, era conosciuta da tutti per via del suo eccezionale talento, per il fatto di essere figlia di Orazio, a sua volta illustre pittore nonché amico di Caravaggio, per la sua prorompente femminilità e, soprattutto, per quel processo che avrebbe segnato la sua esistenza per sempre. Lo sfondo storico è quello che meglio consente di far comprendere la grandezza di Artemisia perché è lì che emerge il suo coraggio, reso esemplare proprio dal suo ‘status’ di donna del ‘600: una donna stuprata che cerca di ottenere giustizia affrontando un processo infamante e sottoponendosi lei, vittima, ad una dolorosa tortura mentale e fisica.

Primogenita e unica femmina di sei figli, Artemisia fin da piccola aveva respirato l’arte della pittura nella bottega del padre in via Margutta, costruendo pennelli, riducendo in polvere i pigmenti, preparando le tele e confezionando le vernici. Tuttavia, benché il suo talento fosse riconosciuto, essendo donna non le fu permesso di frequentare corsi di pittura e il suo apprendistato si svolse tutto nella bottega paterna, da cui assimilò stile e segreti. Quando compì 18 anni, Orazio la affidò ad un pittore suo amico e con cui stava collaborando, Agostino Tassi, affinché sotto la sua guida Artemisia affinasse ancor di più le proprie innate qualità.
Il soprannome con cui quest’ultimo era conosciuto (“lo Smargiasso”) non era stato dato per caso: si trattava di un personaggio rissoso, cinico e abbietto. Era stato accusato, tra l’altro, di aver avuto rapporti sessuali con la cognata (all’epoca quel tipo di rapporto era considerato incestuoso dalla Chiesa e, come tale, punito con la pena capitale) e, addirittura, di aver tentato di far uccidere la moglie.
Anche se il Gentileschi fosse stato all’oscuro di tali accuse, Agostino era comunque l’ultimo uomo a cui un padre avrebbe dovuto affidare la propria figlia. Ma anche Orazio non era uno stinco di santo: persona ambigua, avido opportunista, era divenuto amico del Tassi soprattutto perchè quest’ultimo godeva dei favori del potentissimo cardinale Scipione Borghese, nipote del papa Paolo V, e per il suo tramite sperava di ricevere lucrose commesse. Siamo infatti nella Roma splendida e miserabile degli inizi del ‘600 - secolo segnato dalla Controriforma e che si era aperto con il rogo di Giordano Bruno - dove era tutto un fiorire di interventi urbanistici e di committenze per il restauro di numerose chiese e la costruzione di sfarzosi palazzi. Un periodo insomma di grande fervore artistico, in cui si trovarono ad operare a distanza di pochi anni giganti come Caravaggio, Bernini, Borromini, solo per citare alcuni dei nomi più famosi.

Un giorno di maggio del 1611, mentre Artemisia era sola in casa (la vicina, una certa Tuzia alle cui cure era stata affidata, era uscita con un pretesto, di certo concordato) Agostino Tassi entrò in casa e la violentò. Questo evento traumatico segnò non solo la vita e la personalità della giovane donna, ma anche il suo percorso artistico, che recherà per sempre le tracce della violenza subita.
Alcuni mesi dopo lo stupro Orazio Gentileschi si decise a denunciare l’accaduto, scrivendo una lettera di supplica al papa, affinchè venisse istruito un processo contro Agostino Tassi. Nella lettera, oltre ad accusare quest’ultimo di aver “forzatamente sverginata” sua figlia, si faceva riferimento anche al furto di un non meglio identificato quadro “di capace grandezza”.
Perchè questo ritardo? Perchè, nel frattempo, era accaduto qualcosa di strano ed inaspettato: Artemisia e Agostino erano diventati amanti. Nonostante la violenza subita, insomma, la vittima continuava ad avere rapporti intimi con il suo violentatore. Per quale motivo? Dipendenza psicologica? Una sorta di perversa attrazione? Da un lato, probabilmente, Artemisia non era del tutto indifferente al fascino di quell’artista “maledetto” dai trascorsi burrascosi e, dall’altro, Agostino l’aveva rabbonita promettendo di sposarla. Il matrimonio tra i due, facendo cadere l’accusa di stupro, avrebbe evitato a lui la condanna e a lei l’onta di un pubblico processo. Non dimentichiamo che in Italia, ancora fino a non moltissimi anni fa, il cosiddetto “matrimonio riparatore” estingueva il reato di violenza sessuale, che era considerato dal nostro codice un reato contro la morale e non contro la persona.
Quando padre e figlia scoprirono che, nonostante le promesse, quel matrimonio non avrebbe potuto avere luogo dal momento che Agostino Tassi era già sposato, maturò in loro il desiderio di vendicarsi. Tuttavia, molto probabilmente più che la volontà di riscattare l’onore della figlia fu la rivalità fra artisti a spingere Orazio Gentileschi a chiedere al Papa di procedere contro il pittore. E’ significativo che nella lettera di denuncia su ventisei righe totali, solo quattro riguardassero la violenza subita dalla figlia.

Il processo, che durò dal marzo all’ottobre del 1612, vide sfilare un numero infinito di testimoni che, sicuramente prezzolati, fecero a gara per diffamare la ragazza. Artemisia e Agostino continuarono a ribadire le rispettive versioni: lei sostenendo di essere stata ingannata e violentata; lui affermando che lei mentiva e che, come tutti sapevano, era una “donna di malaffare”. L’iter processuale culminò nella drammatica tortura dei “sibilli” (cordicelle che venivano strette attorno alle dita), inflitta dagli inquisitori ad Artemisia per acclarare, secondo la mentalità giuridica dell’epoca, l’accertamento della verità. Mentre viene sottoposta alla tortura, con le dita martoriate, Artemisia urla al suo violentatore: “Questo è l’anello che tu mi dai, e queste sono le tue promesse!”. Se la tortura faceva paura a tutti, figuriamoci a una pittrice a cui le dita servivano per tenere il pennello, indispensabile strumento di lavoro. Per inciso, Artemisia aveva delle mani eleganti, dalle dita lunghe e aggraziate. Lo testimonia il ritratto che le fece il pittore francese Simon Vouet: l’artista francese decise di mettere in risalto proprio la mano, ritraendola mentre regge con delicatezza un pennello.
Alla fine del processo, Agostino Tassi verrà riconosciuto colpevole e condannato a otto mesi di carcere, da cui uscirà più rissoso e arrogante che mai. Ma a finire sulla gogna sarà Artemisia, denigrata e diffamata. Infatti, poco dopo il termine del processo, sposatasi in tutta fretta con un certo Pietrantonio Stattiesi, lascerà Roma per Firenze.
Abbandonare Roma fu una scelta dolorosa, ma necessaria: la città dei papi era ormai impraticabile per lei, una donna di cui si parlava continuamente solo per sottolinearne la licenziosità sessuale. Tuttavia, quando parte per la città toscana con quel marito che a stento conosce, Artemisia è del tutto consapevole che quel matrimonio riparatore non ha riparato un bel niente.

Dopo questa triste e fosca vicenda, Artemisia, sorretta da una dignità esemplare, cominciò a rielaborare in maniera originale la violenza subita. Con le mani ancora sofferenti per la tortura che le hanno inflitto inizia a dipingere un capolavoro, che rappresenta il suo riscatto e la sua vittoria: “Giuditta che decapita Oloferne”, il suo quadro più famoso, opera possente e formidabile.
Il tema del dipinto è noto: Giuditta, eroina ebrea, entra, insieme alla sua ancella Abra, nella tenda del generale assiro Oloferne e, mentre la sua complice lo tiene immobilizzato, gli affonda la spada nel collo. Lo sguardo di Giuditta (che richiama nelle fattezze Artemisia) è carico di fierezza e di implacabile determinazione: è evidente che quello che sta facendo la riguarda personalmente. Le vesti delle due donne - rosso cupo per l'ancella e blu oltremare per Giuditta - sono ritratte con particolare realismo; il chiaro scuro è drammatico; il gesto cruento sa di un vendicativo rito sacrificale. Il risultato è un capolavoro di fortissimo impatto emozionale.
Ha scritto Roland Barthes a proposito di questo dipinto: “Il colpo di genio è quello di aver messo nel quadro due donne (…) che riuniscono i loro sforzi muscolari sullo stesso oggetto: vincere una massa enorme, il cui peso supera le forze di una sola donna”. E che la forza di una donna non fosse sufficiente da sola, Artemisia l’aveva sperimentato sulla propria pelle.

Come ha acutamente osservato Daniela Musini nel suo libro Le Magnifiche, sebbene siano tante le Giuditte dipinte nella storia dell’arte (da Mantegna a Caravaggio, da Michelangelo a Klimt), in nessuna si riscontra “quella gelida ferocia che appare nel dipinto di Artemisia, semplicemente perchè nessuno di quei giganti della pittura (…) aveva sperimentato l’orrore di una violenza sessuale”.
L’altro tema presente nell’opera, quello della solidarietà tra donne, è servito forse ad Artemisia a compensare sulla tela il dolore di un’amicizia tradita, quella per Tuzia che era per lei, rimasta orfana di madre in giovane età, il riferimento principale. Invece, la donna non solo la tradì facendosi corrompere, ma per di più la denigrò durante il processo, descrivendola come una ragazza di liberi costumi.

A Firenze, dove si era trasferita, Artemisia - che nel frattempo ha rinnegato il cognome Gentileschi, per assumere quello originario della famiglia paterna, Lomi - si fa apprezzare dallo stesso granduca di Toscana, Cosimo II de’ Medici. Inoltre, ha modo di conoscere eminenti personalità della scienza e della cultura come Galileo Galilei (con cui tenne un fitto rapporto epistolare) e Michelangelo Buonarroti il Giovane, pronipote dell’autore della Cappella Sistina. Nel 1616 viene accolta - prima donna a ricevere questo onore - nell’Accademia del disegno, fondata dal Vasari, dove si era presentata, con l’usuale fierezza, come “Madonna Artemisia Lomi, pittora in suo nome proprio”. Tuttavia, se da un lato è un’artista stimata e apprezzata, dall’altro continua ad essere una donna chiacchierata per via del suo oscuro passato, del suo temperamento passionale e dei suoi numerosi amanti.
Donna libera, trasgressiva e dalla forte personalità, Artemisia lascia il marito, di cui peraltro non era mai stata innamorata, e torna a vivere a Roma, con la figlia. Da Roma si sposta a Napoli, dove resta per sette anni dal 1630 al 1637, quando viene chiamata a Londra, alla corte di Carlo I d’Inghilterra, forse per aiutare suo padre, ormai anziano e stanco, ad affrescare il soffitto della Queen’s House a Greenwich.
Lasciata Londra nel 1640, torna nella città partenopea dove resterà fino alla sua morte, avvenuta intorno al 1656 (la data precisa non è nota). Viene sepolta a Napoli nella chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini e sulla sua lapide vengono incise due sole parole: HEIC ARTEMISIA. Purtroppo la tomba di colei che è stata una delle più grandi pittrici di tutti i tempi è andata perduta: di lei ci restano soltanto i suoi dipinti, capolavori assoluti e imperituri.

* * * *

L'iniziale giudizio critico su Artemisia Gentileschi fu fortemente condizionato dalle vicende umane della pittrice, vittima - come abbiamo visto - di un efferato stupro. Questo fu indubbiamente un evento che lasciò un'impronta profonda nella vita e nell'arte di lei, che arrivò a trasferire sulla tela le conseguenze psicologiche della violenza subita. Per questa ragione Artemisia divenne già poco dopo la morte una sorta di “femminista ante litteram”, perennemente in guerra con l'altro sesso e simbolo del desiderio delle donne di affermarsi nella società. Per secoli, la “pittora” è stata poco conosciuta e, anzi, sembrava quasi condannata all’oblio o tuttalpiù ad incarnare un messaggio ideologico, tanto da non essere menzionata neppure nei libri di storia dell’arte.
La sua riscoperta avvenne per merito di uno dei più famosi critici d’arte del ‘900, Roberto Longhi, a cui va il merito indiscusso di avere liberato la pittrice dai pregiudizi sessisti che la opprimevano e di aver riportato l'attenzione della critica sulla sua figura d’artista. A questo riguardo, il giudizio di Longhi è chiarissimo e sancisce senza mezzi termini la grandezza artistica di Artemisia: “L'unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità”.

P. S. E’ in corso a Palazzo Barberini una mostra dal titolo “Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta”, nella quale è possibile ammirare, tra i tanti capolavori provenienti da diversi musei, il quadro di Artemisia su Giuditta e Oloferne. La mostra resterà aperta sino a fine marzo: ve la consiglio caldamente.



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