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n. 9383   lettori al   15.05.24
Una capitale per l’Italia
04-10-2023
… tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio; di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato …
Camillo Benso
conte di Cavour

“Le cose che v’ho da dire sono tante e tali che mi sarà impossibile scriverle con ordine e chiaramente. Mi perdoreranno i lettori. […] Vi dirò subito che l’accoglienza fatta da Roma all’esercito italiano è stata degna di Roma; degna della capitale d’Italia; degna di una grande città sovranamente patriottica. Tutto ha superato non solo l’aspettazione, ma l’immaginazione.”
Così scriveva un entusiasta Edmondo De Amicis, corrispondente di guerra ante litteram, appena entrato a Roma al seguito dell’esercito italiano in un suo articolo datato 21 settembre 1870.

Situata geograficamente al centro della penisola e simbolo indiscusso di antiche glorie, Roma rappresentava per i protagonisti del processo unitario la capitale naturale d’Italia e il punto di raccordo finale della vasta e lunga impresa risorgimentale. Lo stesso Cavour nel 1861, cioè subito dopo la dichiarazione dell’unità d’Italia, aveva affermato in un discorso che “la necessità di aver Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall’intiera nazione”.
Peccato che non fosse così facile andare a Roma: vi si poteva andare solo previo accordo con la Francia e dopo aver garantito l’indipendenza della Chiesa. Questo nodo irrisolto era all’origine della c.d. questione romana.
D’altra parte l’Italia non poteva mettersi in urto con il suo principale alleato. Il governo era pertanto bloccato dalla protezione offerta al papa da Napoleone III, a sua volta pressato dai cattolici e dai clericali francesi, che contribuivano a tenere alto il suo consenso nel paese. Con queste premesse, la soluzione della questione della capitale italiana appariva senza vie d’uscita e affidata a fattori imprevedibili.

Poi, nel 1870, accadde proprio l’imprevedibile. La trappola tesa da Bismarck a Napoleone III fece sì che quest’ultimo dichiarasse guerra alla Prussia. Com’è noto l’esercito francese subì una clamorosa sconfitta a Sedan e l’imperatore stesso cadde prigioniero dei prussiani, mentre a Parigi veniva proclamata la repubblica. A questo punto il governo italiano decise che era giunto il momento di occupare Roma.
Dopo aver inutilmente tentato di risolvere la controversia per via diplomatica, il 12 settembre il generale Cadorna entrò nello Stato Pontificio con 60 mila uomini e in cinque giorni giunse davanti a Roma senza incontrare resistenze.


Ma com’era la Roma del 1870, la città cioè che si accingeva a diventare la capitale della giovanissima nazione italiana?
Diciamo subito che, dal punto di vista urbanistico, rifletteva la stratificazione sociale dei suoi abitanti: aristocrazia, clero, proletariato urbano. Era fatta di palazzi, chiese, conventi raccordati da grappoli di case cadenti in cui alloggiava il popolo minuto. Tutto intorno vi era una corona di ville suburbane che spingevano vigne e giardini ai margini dell’abitato, incuneandosi in mezzo alle case. Per inciso, queste ville per la loro vicinanza al centro e per i grandi spazi disponibili nel giro di pochi anni scomparvero una dopo l’altra, vittime della febbre edilizia.
Anche se la sua popolazione era cresciuta in maniera costante nel decennio 1861-1870, passando da poco più di 194 mila abitanti a 226 mila, Roma non era la maggiore delle città italiane dell’epoca. Largamente superata da Napoli, che contava almeno il doppio degli abitanti, la popolazione romana coincideva più o meno con quella di Milano e di Palermo. E’ da precisare poi che lo sviluppo demografico di Roma era essenzialmente dovuto all’apporto di persone provenienti dalle regioni vicine (Umbria, Marche) che non facevano più parte dello Stato Pontificio, alle quali si erano aggiunti i profughi dell’ex Regno delle Due Sicilie.
Ma la caratteristica principale della Roma pontificia - come ha sottolineato Vittorio Vidotto, uno dei maggiori studiosi della capitale - era la sua vocazione antimoderna. In altre parole Roma era un baluardo alla dilagante modernità e rivendicava con orgoglio questa sua diversità. Era la città dove un ragazzo ebreo poteva essere rapito e convertito a forza. Era la città dove la comunione pasquale era obbligatoria. Era anche la città dove, nel Sillabo, il papa si era scagliato contro gli “errori del mondo moderno”.

Torniamo al nostro racconto. Le truppe italiane avevano circondato Roma concentrandosi prevalentemente tra Porta Salaria (l’attuale Piazza Fiume) e Porta San Giovanni, passando per Porta Pia, Porta San Lorenzo e Porta Maggiore.
Ora, da un lato, l’intenzione di Pio IX era di evitare una carneficina; dall’altro voleva però mostrare al mondo di essere oggetto di una grave violenza da parte degli italiani. Alla fine si decise di combattere almeno per qualche ora, anche per le insistenze del generale Kanzler, comandante delle truppe pontificie, e in omaggio ai tanti volontari cattolici venuti a difendere il papa.

L’attacco italiano era previsto per l’alba del 20 settembre. Lasciamo di nuovo la parola a De Amicis per descrivere l’atmosfera di quelle ore:
“Quando la porta Pia fu affatto libera e la breccia vicina aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all’assalto. Non vi posso dar particolari. Ho visto passare il 40° a passo di carica. L’ho visto, presso alla porta, gettarsi a terra per aspettare il momento opportuno ad entrare. Ho sentito un fuoco di moschetteria assai vivo; poi un lungo grido ‘Savoia’; poi uno strepito confuso; poi una voce lontana che gridava - Sono entrati - .”

Superata la breccia, il combattimento continua dentro Villa Bonaparte immediatamente al di là delle mura. Poco dopo, senza incontrare più alcuna resistenza i soldati entrano in città accolti da una popolazione certo non sorpresa dall’esito della battaglia.


Sull’accoglienza dei romani alle truppe italiane le testimonianze, come prevedibile, sono contradditorie. Secondo le versioni di parte laica, l’entusiasmo sarebbe stato generale e travolgente. Secondo una versione di parte pontificia i soli a esultare sarebbero stati gli ebrei, i quali avrebbero approfittato del trambusto per mettere la città a sacco. Un sacco di cui nessuno è mai riuscito a scoprire tracce o addurre prove.

Una testimonianza, sia pure indiretta, del sentimento di gioia con cui furono accolti i soldati italiani si può trovare nell’esplosione di collera della popolazione verso il regime del papa, per il quale non aveva nessun motivo di affetto. Di che umore fosse la piazza lo dimostra il fatto che, subito dopo il suo ingresso, Cadorna fu raggiunto da una pressante sollecitazione del cardinale segretario di Stato Giacomo Antonelli a occupare anche la zona intorno al Vaticano, che secondo le clausole di armistizio doveva restare sotto la giurisdizione del papa, per sedare i disordini tra gli abitanti e i gendarmi pontifici.
Ovviamente, durerà ancora a lungo il conflitto, non solo ideologico ma anche di piazza, tra clericali e anticlericali. A farne le spese, qualche anno dopo, fu persino la salma di Pio IX, il cui feretro rischiò di essere buttato nel Tevere, durante il trasporto da San Pietro alla basilica di San Lorenzo fuori le Mura.
Di sicuro, la massa del popolo romano non rimpiangeva il vecchio regime. Scrive Montanelli che il plebiscito del 2 ottobre - che diede all’annessione di Roma all’Italia più di 40 mila e solo 46 no - forse non diceva tutta la verità. Ma una verità la diceva.

Alla Santa Sede vennero riconosciuti da parte italiana una serie di privilegi: l’uso dei palazzi del Vaticano, del Laterano e del Vicariato; tutte le garanzie per svolgere liberamente la propria attività pastorale e la facoltà di mantenere le rappresentanze diplomatiche. Fu offerta anche una dotazione finanziaria piuttosto consistente, superiore a tre milioni di lire dell’epoca. Questa dotazione venne respinta (Pio IX la definì i “trenta denari” dell’appannaggio), ma nel 1929, in seguito al Concordato, la Chiesa incassò tutti gli arretrati.

* * * *

Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni la breccia di Porta Pia non fu solo un piccolo episodio, ricordo di uno scontro militare minore, ma un evento epocale per la storia della Chiesa e per la storia d’Italia: finiva dopo oltre mille anni il potere temporale dei papi.
Per l’Italia, poi, la liberazione di Roma - questione che aveva condizionato per un decennio la vita del giovane regno - fu l’episodio conclusivo del suo travagliato processo di unificazione nazionale. Assurta definitivamente con la conquista della sua capitale storica alla dignità di nazione a lungo vagheggiata, l’Italia continuava, pur tra errori e delusioni, il cammino per affiancare i più progrediti Paesi europei.


Resterebbe ancora molto da dire su questo avvenimento, a cominciare dal famoso “Non expedit”, con cui Pio IX vietò ai cattolici italiani la partecipazione alla vita politica. Soltanto in età giolittiana tale divieto sarebbe stato eliminato progressivamente da Pio X e Benedetto XV, fino al completo rientro dei cattolici nella vita politica italiana.

Anche la scelta del luogo dove fu aperta la breccia, secondo alcuni storici, non fu dovuta solo a ragioni di carattere militare, ma anche a motivi diciamo così di “rivalsa”. Infatti, subito dietro alla zona scelta per abbattere il muro si trovava una villa di proprietà della famiglia Bonaparte. L’ipotesi che la decisione di sfondare in quel punto fosse anche un modo per vendicarsi dei Bonaparte, che si erano sempre opposti alla presa di Roma, pur in mancanza di prove certe, ha comunque un certo fondamento.

Un’ultima annotazione. Dall’altro lato di Porta Pia rispetto alla famosa breccia, si trova l’ambasciata del Regno Unito. Non credo che gli inglesi nel 1870 abbiano scelto per caso quel posto come sede della loro rappresentanza diplomatica. Probabilmente voleva essere un gesto simbolico di approvazione e di sostegno nei confronti dell’Italia e della sua nuova capitale. Sappiamo che l’Inghilterra guardò con favore al processo di unificazione della penisola e in qualche misura lo agevolò anche. Non fu un caso, ad esempio, che due navi da guerra inglesi si trovassero davanti a Marsala quando avvenne lo sbarco delle camicie rosse di Garibaldi, impedendo di fatto alla flotta borbonica di intervenire. Anche per questo motivo, la politica estera italiana ebbe tra i suoi punti fermi l'intesa con la Gran Bretagna. Intesa che venne rotta da Mussolini, che volle sfidare gli inglesi in nome delle “aspirazioni imperiali dell’Italia fascista”. Come andò a finire è noto a tutti.


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