.....e della scuola non si parlò più
di Maria Teresa Iannitto---18-03-2018
La scuola non è stata tra gli argomenti al centro della campagna elettorale ed è completamente scomparsa dagli elenchi di ipotetici punti programmatici dei governi che verranno. Dopo essere stata uno dei fronti di attacco più accesi al governo Renzi, non sembra essere più così urgente e necessario abolire “la buona scuola”. Sarà che i 140mila assunti, che in stragrande maggioranza lavorano vicino casa, cominciano ad apprezzare la sicurezza del posto fisso a vita, sarà pure che di presidi sceriffi non se ne sono visti in giro e nemmeno assunzioni “per chiamata diretta” di docenti scelti solo perché graditi al dirigente. Del premio da assegnare in base al merito poi non rimane che poco, essendo passato in mano alla cogestione sindacale. E degli otto decreti attuativi, sia pur approvati, molto rimane ancora da implementare. Insomma, ancora una volta, terminata la fase riformista, la scuola torna nel dimenticatoio, o peggio, torna ad essere oggetto di interventi occasionali e contraddittori che alimentano a dismisura la normativa che affligge la vita quotidiana di chi la scuola la frequenta per lavoro o per studio.
Nell’ottimo intervento di Carlo Stagnaro sul Foglio del 18 marzo, si svolge un’analisi profonda e impietosa dell’amministrazione statale, vista dal punto di vista del MISE. Un’analisi che potrebbe essere estesa anche al MIUR, una macchina autoreferenziale che digerisce e neutralizza ogni riforma e innovazione. Ma il potere della burocrazia è il corrispettivo di una politica debole, che non è più capace di interpretare il mondo che cambia e che quindi difetta di quella visione di futuro capace di infondere la fiducia di poterlo governare. Alla scuola manca proprio una chiarezza di indicazioni valoriali di fondo, che non sono certo il profluvio di linee guida che interpretano tanti bei concetti politicamente corretti (inclusione, intercultura, parità di genere, rispetto, etc. etc.), ma che quasi nessun docente legge e meno ancora mette in pratica, limitandosi a fare “come si è sempre fatto”, sia pure sotto nuove etichette.
Da tempo i docenti hanno cambiato fisionomia culturale e sociale, la stessa estinzione del termine supplente a favore di quella di precario è l’espressione di un approccio completamente diverso al lavoro dell’insegnante e che altera ad esempio il rapporto tra docenti più anziani e quelli di recente inserimento, più preoccupati di rivendicare diritti sindacali che di imparare “come si fa” da chi ha più anni di esperienza. Le organizzazioni professionali dei docenti (disciplinari e di ispirazione “ideologica”) sono sconosciute ai più, raccolti piuttosto intorno alle pagine facebook o al singolo evento (il concorso, la graduatoria, l’innovazione tecnologica…). Dalle associazioni (MCE, Cidi, Fnism, gli stessi sindacati, etc) veniva un tempo la spinta all’innovazione, la ricerca educativa, la curiosità e la voglia di fare di più e meglio, ma non si può negare che tutto ciò aveva a supporto la spinta ideologica di fondo e che finita quella non è rimasto che il tecnicismo, nel migliore dei casi o il corporativismo, nel peggiore. Ecco che parlare di scuola quando manca un quadro di riferimenti intellettuali e valoriali è praticamente impossibile. Ma è solo da lì che si può ricominciare a guardare al futuro.