Una parola d'uso sconcertante.
di Carlo Corridoni---16-03-2020
Ho scoperto che esiste una nuova accezione per 'compassionevole'.
Un medico del Cotugno, di Napoli, dice che si sarebbe fatto ricorso ad un farmaco imprevisto quando l'ammalato che stava in cura non avrebbe più trovato dalle medicine protocollari una prospettiva di guarigione e di vita.
Non un placebo, quindi, o una medicina palliativa per attenuare le sofferenze dell'agonia: non una medicina pietosa, ma una medicina per contrastare ancora il male, nei limiti del possibile, oltre la speranza, con tutte le proprie forze. E i rischi, posso pensare, anche professionali.
Questa sarebbe la MEDICINA COMPASSIONEVOLE.
Non l'azione di chi compatisce, dico io, allora, ma l'intervento di chi lavora con PASSIONE, di chi non si arrenderebbe alla protocollarità delle procedure. Di chi sente la fine dell'ammalato come un evento malaugurato, una disgrazia, anche se ormai inevitabile.
E in tali condizioni disperate trova l'insperata efficacia di un farmaco non protocollare.
Questo mi dà molto da pensare, in tutti i campi della scienza e del lavoro. Nel mio umile lavoro di insegnante ero anch'io uno appassionato, ma non per questo ho mai praticato una didattica compassionevole. Sono sempre stato possibilista ma mai e poi mai compassionevole!
Eppure, quanti giovani si lasciano abbandonare gli studi così: spontaneamente. Spontaneamente è un ipocrita eufemismo per volontariamente. Volontariamente da parte degli insegnanti!