Duemilaventuno Auguri
di Carlo Mari---30-12-2020
Carissime/i “Iscritte/i a parlare”, siamo alla conclusione di un tormentato, sofferto, ineffabile anno 2020; ed entriamo in un anno nuovo al quale – credo, come non mai – affidiamo enormi speranze e addirittura sogni.
Ed è paradossale, surreale che il principale di questi sogni sia riconducibile al più banale dei desideri: una vita normale.
Eh già, perché è a questo che ci siamo ridotti, a sognare la normalità come fosse la più trasgressiva delle nostre dimensioni.

Che poi anche sulla normalità ci sarebbe molto da discutere, su cosa sia, come si definisca e come si differenzi – fortunatamente – da persona a persona.
Ma in buona sostanza ci siamo capiti: quello che desideriamo e intendiamo per normalità è potersi incontrare, potersi guardare in faccia mentre ci parliamo. E’ viaggiare su un autobus spingendosi un po’ fra passeggeri stipati. E’ andare al bar con gli amici per un caffé. E poi andare al cinema, ad ascoltare un concerto, a vedere uno spettacolo teatrale o una mostra. O a mangiare al ristorante, come coppia innamorata al lume di candela o come comitiva di amici davanti ad un’enorme pizza al taglio su una lunga teglia… comune.
Insomma in una parola, normalità è potersi abbracciare.
E già, perché credo che per un popolo di “abbracciatori seriali” come noi italiani, l’abbraccio mancato sia proprio il segno più plastico, la metafora più evidente della rinuncia, della sconfitta, del dolore. L’emblema di una umanità imbrigliata, razionata, a piccole dosi, a volte quasi impalpabili.

E poi c’è la normalità della complessità. Una economia da ricostruire; e l’economia è prima di tutto il vissuto quotidiano delle persone. E il senso alto, nobile del lavoro – il lavoro - come componente insopprimibile della personalità umana e del ruolo sociale dell’uomo e della donna.
Siamo arrivati persino a catalogare i lavori in essenziali e non essenziali, irrinunciabili o rinunciabili (si voleva dire inutili?). Ma per chi il proprio lavoro lo svolge con serietà, impegno ed amore, ogni lavoro è alto: ogni lavoro è vita. La sua vita. E quella collettiva. Eh sì, perché dopo mesi abbiamo cominciato anche a comprendere che una emergenza - ok - impone queste violente differenziazioni, affinché la società tiri avanti nel brevissimo termine. Ma nel medio, ed ancor più nel lungo termine, ciascun lavoro è essenziale, per chi lo svolge, ma anche per la collettività, che senza anche uno solo dei lavori e delle funzioni, si impoverisce; e su qualche versante, da qualche parte paga sicuramente un prezzo. Salato.

E poi la normalità del funzionamento quotidiano del più bello dei luoghi, il più alto, il più aperto, il più insostituibile: la scuola. Giovani e adulti che ogni giorno si ritrovano, si “assembrano”, per fare educazione, formazione, istruzione, cultura, civiltà, cittadinanza. Per costruire un domani sempre giovane.

E quanta altra infinita complessità potremmo elencare qui, che ci manca, e che in qualche modo abbiamo anche scoperto e/o riscoperto.
Eh sì, le emergenze sanitaria e ambientale aprono le porte a tanti ripensamenti, a tanti nuovi disegni di vita, individuale e collettiva, a tanti nuovi modelli di sviluppo e di organizzazione sociale; anche politico/istituzionale, che non solo in Italia - ma in Italia sicuramente - ha mostrato la corda di un logoramento e di uno sfilacciamento non più sostenibile. Non appena la pandemia avrà un po’ allentato la presa, avremo molto da ripensare ad istituzioni e a dinamiche politiche (e mediatiche, con esse ormai inscindibili) e – mi si consenta – a come formare (sì, formare, e poi selezionare) classi dirigenti – tutte - all’altezza del compito immane di guidare stati, istituzioni, sistemi sociali che si misurino adeguatamente con la contemporaneità.
Il mondo e l’Italia possono permettersi tutto, tranne ancora classi dirigenti inadeguate. E questa non vuol essere polemica qualunquista o beceramente anticasta, ma l’esatto contrario, perché le classi dirigenti le esprimiamo noi: la società civile.

Insomma certamente normalità non potrà voler dire riprendiamo tutto come prima, come se niente fosse accaduto. Dobbiamo resettarci e riprogettarci.
Ma, attenzione, nessun millenarismo o moralismo palingenetico d’accatto. Nessuno potrà mai convincermi a dire – come pure sento dire in giro da tanti Savonarola d’annata – che la pandemia in qualche modo “ce la siamo meritata” e che almeno ci renderà migliori, costringendoci a questa riprogettazione. Un corno. Sarebbe come dire quanto è stata bella la seconda guerra mondiale, che ha indotto cambiamenti e novità anche epocali.
Non scherziamo, la pandemia è - e resta - una tragedia, pagata con il sacrificio, e con la vita, delle persone.
Non saremo migliori, né peggiori, ma diversi. E la Storia deve andare avanti, e resettarci sarà una necessità, prima ancora che un dovere.
In questo io ci credo: l’uomo sa costruire e sa ricostruire e progredire, e portare avanti la Storia collettiva. E questo è stupendo. Ed è cultura. Ma le sofferenze restano, i prezzi umani di ogni tipo, pagati dai cittadini di tutto il mondo, restano. Ed è cultura.

Insomma questo 2020 resta. Cerchiamo allora di rendere il 2021 il migliore possibile. Appunto, nei limiti del possibile. Perché siamo ormai troppo smaliziati, per illuderci che il 2021 ci ripagherà del disagio o del male patito. Sarà realisticamente un altro anno complicato – ma complicato assai – che però potrà aprire qualche spiraglio di luce. E non intendo solo di fuoriuscita da una fase acuta di epidemia, ma anche di ragionevolezza nei modi privati e collettivi, di giusto equilibrio fra responsabilità comportamentali dei cittadini e responsabilità del potere: il potere tutto, da quello politico a quello economico; da quello mediatico a quello – di nuovissima generazione – della rete e dei social. Forse… neanche nuovissimo; possiamo in fondo definirlo il potere del senso comune, che non esiste solo oggi nell’epoca della comunicazione virtuale, ma è sempre esistito.
E qui consentitemi una citazione, di quell’acuto descrittore di una epidemia – e della vita collettiva - che fu Alessandro Manzoni: “il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”.

Care Socie ed Amiche, Cari Soci ed Amici, permettetemi di rivolgerVi un affettuoso augurio di un Buon Anno 2021, per la Vostra vita personale, per la Vostra Famiglia, per Voi stessi.
E per la nostra bella Associazione l’augurio è – nella corporeità della presenza o nella virtualità della videoconferenza - di continuare ad essere irrinunciabilmente… ferocemente se stessa: cioè voglia di parlarsi, di ascoltare, di dialogare, di approfondire, di capire. Come donne ed uomini liberi… liberi nella testa.