Palestina libera un sogno infranto
di Rosy Ciardullo---31-05-2021
Nella storia, spesso l'utopia è diventata realtà, magari a fronte di lunghi decenni di sofferenze e di attese. Fino a qualche decennio fa, il progetto politico della Palestina libera ha resistito a tranelli, realpolitik e violenza rimanendo intonso nel cuore dei democratici e di quelle generazioni che avevano sperato. Per la Palestina e per Israele, l'idea di due popoli, due stati sembra dunque tramontata. Così vuole la logica geopolitica dei paesi dell'area medio-orientale e degli Stati Uniti.
Riguardo alla Palestina, è cambiato il sentiment mondiale, la percezione che si ha dei territori occupati della Striscia di Gaza. Il dolore di quel popolo è rimasto inalterato ma l'idea del suo destino si è quasi perso nell'eco del tempo, perché il progetto politico è sfumato. Pragmatismo politico e opportunità cogenti hanno avuto la meglio.

Si parla ormai di normalizzazione dell'area mediante accordi e finanziamenti internazionali per la ricostruzione e per i danni causati dall'ultimo conflitto del 10 - 17 maggio di quest'anno. È la politica risarcitoria del Presidente americano che su pressione dei democratici del Congresso intende comunque perorare la politica dello status quo e del non volersi impantanare nel quadrante Medio Orientale del Nord Africa.

Nella strategia americana, al momento, c'è solo l'intenzione di monitorare la Turchia, l'unica potenza di quell'area che valuta bene le sue opportunità e svolge un ruolo egemone nei confronti degli altri stati del Nord Africa e perfino dei Balcani. Riuscendo a mantenersi equidistante sia dalla Russia che dall'Iran.

Dopo l'assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995 e la morte di Yasser Arafat nel 2004, il processo di pace, avviato con gli accordi di Oslo nel 1993 alla presenza di Bill Clinton, che riconoscevano l'OLP e l'Autorità palestinese a Gaza, si è arrestato e le strategie di pace e le opportunità che si potevano cogliere a livello internazionale si sono arenate. In Israele hanno prevalso i falchi, cioè la destra, e Benjamin Netanyahu è uno di loro.
Oggi Israele mantiene la sua egemonia sui paesi confinanti (Alture del Golan, Cisgiordania, Libano, Giordania, Arabia Saudita) anche a causa delle loro debolezza socio-economica interna. Con i suoi interventi armati mira soltanto all'accaparramento di ulteriori spazi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

Per la Palestina, dopo 73 anni di guerra e quest' ultimo conflitto durato una settimana, è stata bandita ogni pietà. Non esiste nella cultura araba l'istituto del negoziato come strumento politico ma soltanto quello della tregua tra un conflitto e l'altro. Infatti il Presidente Biden ha parlato di de-escalation progressiva non di iniziative di pace di cui però vorrebbe facilitare l'avvio.

II pretesto per il nuovo scontro si è verificato a Jarrah e Silwan, presso Gerusalemme, per l'ennesima appropriazione indebita da parte israeliana, di case di proprietà palestinese. Le proteste si sono susseguite anche nelle città di Nazareth e Ramallah dove la presenza araba è consistente e in aumento. Le vittime sono state moltissime, le deportazioni dei profughi sono aumentate, le fonti di approvvigionamento idrico si sono assottigliate ed ancora più inquinate, e l'energia elettrica è diminuita pregiudicando non poco la qualità dell'acqua per molta parte dei territori.

I gruppi dirigenti palestinesi

Le dirigenze politico-militari palestinesi, da parte loro, in questi decenni di crisi, non hanno mai mostrato la capacità politica da sapersi incuneare in una politica di alleanze nell'area o rappresentarsi nella politica internazionale. Hanno preferito battersi sul terreno col lancio di razzi contro Israele prestando il fianco alla politica espansionistica perseguita ad ogni costo dalle destre israeliane. Hamas (sostenuto da Turchia e Qatar) ha avuto sempre un gran bisogno di garantirsi i consensi per ergersi come simbolo di resistenza nel mondo palestinese e in generale tra le popolazioni arabe di altri paesi. Ben sapendo che il Qatar finanzia l'amministrazione nella striscia di Gaza, l'Iran fornisce il suo appoggio e la Turchia garantisce le armi per continuare la politica terroristica palestinese. Una tattica utile a mantenere accesa la rabbia della popolazione, soprattutto dei giovani, e continuare a lucrare posizioni di rendita politico-militare e di potere. Israele combatte sia Abu Mazen in Cisgiordania che Hamas (costola dei Fratelli Musulmani egiziani) a Gaza, perché molto interessato all'espansione del territorio.

Anche gli accordi di Abramo di agosto 2020 ( di cui fanno parte gli Emirati Arabi, Israele, Egitto, Giordania ,Sudan e Bahrein) nati per promuovere l'alleanza e la pace tra religioni per una nuova rinascita nell'area , appaiono già col fiato corto e ridimensionati nella loro importanza vista l'esclusione dai patti della Palestina. Si sono fatti i conti senza l'oste, visto che quella terra è una polveriera che si infiamma facilmente. Il paradosso è che gli stessi paesi arabi non hanno mai fatto fronte comune e non si sono mai spesi per la Palestina. Lo testimoniano le condizioni dei palestinesi deportati fuori dalle loro case e ricacciati nei campi profughi.

La Turchia che persegue la sua politica egemone, si muove invece con disinvoltura in competizione con l'Iran (che finanzia Hezebollah e Hamas) e Israele, ed equidistante dalla Russia. E vuole entrare nel conflitto palestinese-israeliano per le sue opportunità.
Gli USA, soltanto per calcolo politico, nonostante le novità introdotte all'interno dal Presidente Biden, in quel quadrante, mantengono la stessa politica di desistenza di prima, nel senso che non vogliono nessun coinvolgimento nell'area medio-orientale. Le telefonate a Netanyahu su pressione dell'opinione pubblica americana, puntano solo ad una soluzione pacifica in un'area destabilizzata.
In una logica geopolitica, l'America è più interessata a una tregua con l'Iran dove pesa la questione mai risolta sul nucleare e ad monitoraggio costante sulle mire espansive della Turchia che alle sorti della Palestina.

Il problema di Israele

Lo stato israeliano però non si presenta più nella sua forma migliore. Cioè nella sua compattezza granitica a livello etnico. Su una popolazione di circa nove milioni di abitanti, sette sono ebrei, un quinto, quasi due milioni sono di origine arabo-israeliana (o palestinese). Nella fase del conflitto, le rivolte scoppiate non solo nel sobborgo di Jarrah ( Gerusalemme) ma anche in altre città del paese, dove la presenza araba è consistente ed in aumento, il risentimento per la discriminazione che gli arabi patiscono, rimane sempre un fuoco che cova sotto la cenere. Anche se le condizioni dei arabi residenti è migliore di quella degli abitanti di Gaza.
L'idea eventuale di ricomporre e unificare i due popoli in uno, cioè di includere la striscia di Gaza con una sorta di annessione pacifica, sembra comunque un'ipotesi poco plausibile e non rende tranquilli gli animi di nessuno. In questo momento.
In ogni caso, in questa situazione di fermento, nella nuova composizione parlamentare post-elezioni, in Israele, qualcosa potrebbe cambiare, vista la possibilità emersa in questi giorni di ammettere qualche seggio rappresentativo della minoranza araba.