Lessico politico e lessico giuridico
di Lucia Fattori---09-07-2021
Sto leggendo con molto interesse il dibattito sul ddl Zan che si sta sviluppando nel sito.
Vorrei contribuire ad esso riportando una riflessione di Ida Dominijanni pubblicata circa un anno fa su internazionale.it. L'autrice suggerisce di tenere separati il piano giuridico da quello politico quando si affrontano certi argomenti.

...il testo del ddl Zan elenca e allinea come atti discriminatori e violenti da sanzionare quelli basati 'sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale e sull'identità di genere'. Vengono così per la prima volta trasferiti e cristallizzati in un documento giuridico termini prelevati dal lessico teorico-politico femminista e lgbtq+. Ma mentre nel dibattito teorico-politico si tratta di termini mobili e porosi, spesso controversi e comunque sempre aperti all'interpretazione, alla contestazione e alla negoziazione, trasposti nel linguaggio giuridico gli stessi termini si irrigidiscono e diventano normativi e divisivi.

La distinzione fra sesso (come dato biologico) e genere (come costruzione culturale) ad esempio, netta e basilare nel femminismo anglofono, non è tale in quella vasta area del femminismo radicale italiano che lavora piuttosto sulla risignificazione politica della differenza sessuale, a sua volta intesa come interfaccia fra natura e cultura. E l'espressione 'identità di genere', che si riferisce al genere a cui le persone trans sentono di appartenere a prescindere dal sesso di nascita, per quanto sia entrata a far parte del linguaggio giuridico internazionale non può non suscitare qualche perplessità quantomeno sul piano concettuale: a me pare che contraddica nell'uso stesso del termine 'identità' la fluidità che vorrebbe esprimere. Sono questioni aperte, in Italia e altrove, che rinviano alla composizione e all'articolazione dei movimenti femministi e lgbtq+, e dovrebbero restare affidate al libero gioco politico della soggettività, delle alleanze, dei conflitti, del rapporto necessario fra le pratiche e i posizionamenti teorici.
La loro codificazione, viceversa, da un lato costringe la scena istituzionale a confrontarsi con un lessico ancora instabile e per molti oscuro (quanti parlamentari sono in grado di esprimere un voto in scienza e coscienza sulla sequenza 'sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere'?), dall'altro lato rischia di avere un effetto regressivo sulla galassia sociale a cui si rivolge. Malgrado la suddetta sequenza voglia essere la più larga e inclusiva possibile, e malgrado si riferisca alla definizione degli atti da sanzionare e non dei soggetti da tutelare, quello che ha prodotto finora è un effetto di segmentazione identitaria della galassia femminista e lgbtq+. Dove le questioni aperte di cui parlavo prima si trasformano in definizioni chiuse, quando non in reciproche scomuniche.

Si sono infatti fin qui fronteggiati da una parte un femminismo preoccupato che l'identità basata sul genere dichiarato si sostituisca all'identità basata sul sesso biologico, con la conseguenza di una 'dissoluzione della realtà dei corpi femminili', nonché di una nuova e paradossale forma di discriminazione e tacitamento delle donne e del femminismo che rivendicano l'importanza dell'impronta biologica sulla costruzione del soggetto (si vedano i casi delle accuse di omotransfobia rivolte alla scrittrice J. K. Rowling e alla filosofa Sylviane Agacinski). Dall'altra parte un femminismo che nella legge Zan, e nella sequenza sesso-genere-orientamento sessuale-identità di genere, non vede nulla di problematico e registra anzi un passo avanti, il più inclusivo possibile, 'verso la garanzia di uguali libertà per tutte e tutti'. Infine, e su questa stessa onda, un 'femminismo e transfemminismo', che accusa il femminismo critico verso la legge di voler affermare 'il falso biologismo' di un'identità femminile anatomica contro le identità di genere (che invece, mi chiedo, sarebbero 'vere'?), di escludere le persone transessuali e di essere alla fine 'l'altra faccia della medaglia' dei movimenti no-gender di destra.

Derive antipolitiche
Qui non intendo entrare nel merito di queste posizioni, né fare lo slalom fra quello che di ciascuna mi parrebbe da accogliere o da respingere. Eviterò dunque di argomentare perché a mio modesto avviso la prima posizione vede bene il rischio degli effetti collaterali della legge Zan, pur scivolando effettivamente in un certo biologismo; o perché la seconda si fidi troppo del linguaggio giuridico progressista tralasciandone gli effetti performativi sui movimenti; o perché la terza sia viziata da un pregiudizio contro il femminismo della differenza, radicato più nell'accettazione passiva delle tassonomie del femminismo anglofono che nella conoscenza effettiva di quello italiano.

Eviterò anche di esplicitare che effetto mi fa apprendere (scusate il ritardo) che noi femministe radicali siamo ormai classificate ed etichettate come 'transfem' o 'terf' a seconda della presunta inclinazione inclusiva o escludente verso le transessuali. Eviterò tutto questo per non cadere nella trappola in cui invece tutte queste posizioni cadono, e che a me sembra la vera trappola della legge Zan: quella di incoraggiare – essendone peraltro e al contempo un prodotto – la deriva verso la frammentazione identitaria già presente nella galassia femminista e lgbtq+, deriva a mio avviso pericolosamente antipolitica, che ripercorre una strada già rivelatasi senza uscita nel femminismo americano e dalla quale l'originalità del femminismo italiano ci aveva a lungo preservate (si veda in proposito il fondamentale libro della filosofa americana Linda Zerilli Feminism and the abyss of freedom, a cui la rivista Soft Power ha dedicato tempo fa un ampio approfondimento).

Questa deriva consiste nel concepire il soggetto femminista come una somma algebrica – più o meno inclusiva o più o meno escludente – di identità sociali differenti, certificate non si sa come se non sulla base di astrazioni teoriche o giuridiche, piuttosto che come una costruzione politica basata su pratiche condivise. Prima fra tutte la pratica del partire da sé, pratica che di suo è aperta a chiunque perché volta a dare voce a chiunque sulla base di un desiderio di condivisione dell'esperienza e non di un'identità rivendicata o certificata; e che di suo è generatrice di relazioni, alleanze, coalizioni nonché conflitti, ma motivati da ciò che si fa, non da ciò che si è o si afferma di essere; da ciò che di inedito e imprevisto si mette al mondo, non dal bisogno di riconoscimento da parte del mondo com'è e delle sue leggi, buone o cattive che siano. Questa modalità politica di costruzione del 'noi' femminista è ciò che oggi a me pare messo a rischio dalle diatribe identitarie, ed è ciò a cui invece non possiamo rinunciare, né che possiamo sacrificare a pur sacrosante sanzioni legali di comportamenti inaccettabili e a pur comprensibili istanze di riconoscimento giuridico e istituzionale.



Un esempio di come sia facile su questo argomento rischiare l'insulto social è riportato in questo articolo, pubblicato tre settimane fa su ilpost.it, dal titolo