Osservazioni a margine dell'invecchiamento
di Carlo Corridoni---09-11-2021
Se c'è una parola che non amo è quiescenza.
Non perché non ami il cluster dei suoi significati, che appartengono tutti all'area della quiete o, almeno, del riposo, al gruppo della contemplazione se non della pace. Perfino della beatitudine.
Quello che non sopporto è l'uso burocratico di questa parola - quiescenza - che viene dispensata come un requiescat padronale, una concessione al servo ormai deprivato, strizzato di ogni residua energia.
Ed 'energia' significa grosso modo 'il lavoro che c'è dentro'.
All'uomo che uscisse dalla fase della produttività sarebbe consentita, quindi, insieme col pensionamento, la quiescenza.
Guai a lui, se volesse rinunciarvi (o, per carattere, non potesse praticarla, questa quiescenza!):
- ''Come? Lo pagano per non fare niente e lui pretende che non si possa fare a meno di lui! Ma chi si crede di essere?''
- ''Egoista! Toglie il lavoro ai giovani disoccupati e si piglia tutto lui!''
Vero è che non tutti possono amare il lavoro: alcuni per motivi oggettivi, per la pesantezza o penosità, ma i più perché lo esercitano esclusivamente come un dovere; soprattutto quelli che subiscono il lavoro con cui si guadagnano da vivere, traendone pure fatica e danni permanenti.
Per tutti questi la quiescenza si presenta come un premio ambito!

Io non ho nulla contro i quiescenti, ma guardo con curiosità e sospetto chi consideri la quiescenza l'obiettivo della propria esistenza.